Rund sieben Prozent aller Studierenden an der Universität Luzern – plus diverse Mitarbeitende – stammen aus dem Tessin und aus Italien. Das Miteinander läuft gut, aber es gibt auch Unsicherheiten. Seit 14 Jahren in Luzern, ist Filippo Contarini in der Lage, beide Seiten zu verstehen.

Zwei Fenster mit frabigen Fensterläden
(Bild: istock.com/tapui)

Versione in italiano vedi sotto


In der ersten Ausgabe des Luzerner Studierendenmagazins «Lumos» war vom Unbehagen einer Tessiner Studentin zu lesen. Diese fühlte sich verletzt durch das Verhalten ihrer Mitstudierenden, als in einer Vorlesung eine Frage an sie gerichtet wurde. «Meine Stimme wird sich, sobald ich mich überwinden kann, im Hörsaal verbreiten, zitternd und fremd. Ich schnappe nach Luft, meine Unruhe wächst. […] ‹Ich weiss es nicht›, flüstere ich meine Antwort. […] Wieder dieses Gekicher.» Die Studentin gelangt zum Schluss: «Für sie sind wir Fremde. […] Für uns sind sie Leute, die sich überlegen fühlen, mit denen wir aber trotzdem konkurrieren können, und dies, ohne ihre Sprache zu verstehen. Wer ist also überlegen?»

Problematische Verallgemeinerungen

Wenn man starke Gegensätze wie demjenigen zwischen einem Innen («wir») und einem Aussen («sie») postuliert, neigt man zu Überzeichnungen. So auch die Tessiner Studentin: Sie hat aus ihrer Erfahrung ein unterdrücktes «Wir» abgeleitet und es einem unterdrückenden, monolithischen «Sie» gegenübergestellt. Ihre These wurde sogleich auch an den Mensa-Tischen zum Thema: Erleben «wir» Tessinerinnen und Tessiner das wirklich so? Das Thema Integration wird bei «uns» oft diskutiert. Wir fragen uns, ob wir diskriminiert oder ausgelacht werden und ob die Deutschschweizer sich uns überlegen fühlen. Wir fragen uns aber auch, ob nicht vielleicht wir diejenigen sind, die zu verschlossen und vorurteilsbehaftet sind – melancholisch, zu sehr auf uns selbst bezogen und immer mit einem Fuss auf dem Weg nach Hause. Das sind natürlich Verallgemeinerungen, und sie sind typisch für Menschen, die sich in eine andere Kultur begeben. Tatsächlich sitzen am Tisch neben denjenigen, die ähnlich schmerzhafte Situationen wie die Studentin erlebt haben, auch andere, die von wunderbaren Erlebnissen erzählen können – vom Respekt und der Anerkennung, die man ihnen entgegenbringt, weil sie in einer Fremdsprache studieren. Integration ist eine delikate Sache: Manchmal braucht es wenig, um die Schwierigkeiten zu überwinden; es genügen schon einige kulturelle «Vorposten», wo italienisch gesprochen wird (etwa im Dekanat und im Studentenheim) und wo man hilft, die Kultur der «Anderen» zu verstehen.

Interessant: Die Studentin hat nicht beschrieben, wie die Professorin, der Professor auf das Gelächter reagierte. Das «Wir» und das «Sie» bezieht sich ausschliesslich auf die Studierenden. Ich denke, hier handelt es sich um einen Automatismus, der viel über die heutige akademische Kultur aussagt. Der Zeitgeist der rücksichtslosen Konkurrenz diktiert, dass man sich einzig darauf konzentriert, zu den «Besten» zu gehören, was unter den Studierenden zu einer von Rivalität geprägten Atmosphäre führt. Anders als noch vor 10 bis 15 Jahren spielen Studentenvereinigungen keine kritische Rolle mehr, sondern sehen ihre Aufgabe eher im Coaching der Studierenden, die sie vermehrt als eine Art Kundinnen und Kunden betrachten. Aus meiner Sicht arbeiten die Tessinerinnen und Tessiner heute deutlich härter für ihr Studium und erleben dieses zugleich auch als erheblich grössere Belastung.

Dialog über akademische Kultur

Meiner Erfahrung zufolge (fünf verschiedene Dekanate!) war die Uni Luzern stets offen für die Bedürfnisse der Studierenden. Die Tessiner selbst suchten ebenfalls aktiv den konstruktiven Dialog, erzählten von ihrer Kultur und ihren Emotionen, riefen nach Orten für den Austausch und nahmen an Aktivitäten teil. Das Problem scheint heute jedoch grösser zu sein, und es berührt eine zutiefst humanistische Frage. Gerade die Diversität, welche die Universität prägt, ermöglicht heute den Beginn eines Dialogs darüber, welche akademische Kultur wir wollen: vor allem Konkurrenz- und Wettbewerbsdenken, was der Dialogbereitschaft und der Offenheit abträglich ist? Oder vielmehr eine Universität im Zeichen der Neugier auf das Andere, eine Uni als Leuchtfeuer für eine offene Gesellschaft? Auch wenn ich nicht mit allem im Text der Tessiner Studentin einverstanden bin, sollten wir ihr doch zugutehalten, dass sie eine kulturelle Realität ans Licht gebracht hat, deren Diskussion sonst weitgehend «unter uns» geblieben wäre. Es ist nun an «uns» (als Universität), dieser Realität ins Auge zu blicken und auf konstruktive Art damit umzugehen.

 

___________________________________________________________________________________________

 

Solo una questione di «noi» e «loro»?

Circa il sette per cento di chi studia all’Università di Lucerna – più alcuni collaboratori – è ticinese o comunque italofono. La collaborazione sta andando bene, ma ci sono anche delle incertezze. A Lucerna da 14 anni, Filippo Contarini conosce bene entrambe le parti in gioco.


Negli scorsi mesi sulla rivista studentesca «Lumos» abbiamo letto lo sconforto di una studentessa ticinese. Era ferita dai suoi compagni di corso, che la hanno derisa al momento di essere interrogata in aula: «La mia voce, appena le permetterò di esistere, invaderà la sala, tremolante e sbagliata. Sento il respiro che manca, l’ansia che avanza. […] ‹Ich weiss es nicht› sussurro, il microfono espande il mio sussurro fino all’ultimo angolo della stanza. Ed ecco che la risata si lascia andare». Per darsi forza, la studentessa ha poi ipotizzato cosa abbiano pensato i suoi compagni, infine sfidandoli: «Per loro siamo stranieri. […] Per noi invece loro sono gente che si sente migliore, a cui in fondo riusciamo tenere testa pur non capendo la lingua, e allora chi è superiore?»

Una generalizzazione difficile

Quando si disegna una differenza, un dentro (il «noi») e un fuori (il «loro»), si tende a dominare sia la descrizione del dentro, sia quella del fuori. Così ha fatto la studentessa ticinese: ha costruito dalla sua esperienza un «noi» oppresso, contrapponendolo a un «loro» compatto e opprimente. Il dibattito si è quindi subito spostato ai tavoli della mensa: ma «noi» ticinesi sul serio proviamo ciò che ha scritto lei? L’integrazione è spesso un tema fra «noi». Ci chiediamo se siamo discriminati, se siamo derisi, se gli svizzeri-tedeschi si sentano superiori. Ma ci chiediamo anche se non siamo noi quelli chiusi e pieni di pregiudizi, malinconici, settari, sempre pronti a tornare a casa. Si tratta di generalizzazioni, tipiche di chi si sposta in un’altra cultura. E così a tavola c’è chi spiega di aver vissuto le stesse dolorose situazioni di disagio della studentessa, mentre altri raccontano di esperienze bellissime, di essere sempre elogiati perché studiamo in un’altra lingua. L’integrazione è una cosa delicata, talvolta basta poco per superare le difficoltà, anche la sola presenza di avamposti culturali dove si parla italiano (come alla segreteria del decanato o alla casa studenti). Luoghi che ci aiutano a capire la cultura degli «altri».

Qualcosa mi ha stupito nel racconto citato all’inizio: la studentessa non ha spiegato come abbia reagito il professore alla risata in aula, uno scomodo «terzo escluso». Il «noi» e il «loro» era legato al solo piano studentesco. Penso si tratti di un automatismo, che dice molto sulla cultura accademica di oggi. Lo Zeitgeist della concorrenza spietata dice che si punta solo sui «migliori» e crea questo ambiente di «sfida» fra studenti. D’altronde rispetto a dieci-quindici anni fa le associazioni studentesche non hanno più un ruolo critico, ma di accompagnamento degli studenti, sempre più visti come «clienti». Per come lo percepisco io, rispetto a ieri i ticinesi lo hanno capito e studiano senza dubbio molto di più, con risultati spesso eccezionali. Ma negli ultimi anni vivono l’università con delle angosce che non avevo mai visto prima.

Più dialogo sulla cultura accademica

Nella mia esperienza (5 decanati diversi!), l’Uni di Lucerna ha sempre voluto ascoltare i bisogni degli studenti. Gli stessi ticinesi sono sempre stati proattivi nel cercare un dialogo costruttivo, raccontando la propria cultura e le proprie emozioni, chiedendo luoghi di scambio e partecipando alle attività. Il problema però oggi appare più grande, ed è di carattere umanistico. Anche grazie alla diversità che l’Uni porta dentro di sé, secondo me è possibile aprire ora un dialogo che metta sul tavolo quale cultura accademica vogliamo: vogliamo anzitutto la concorrenza, che crea un ambiente di sfida e una tendenziale chiusura al dialogo, oppure vogliamo un’università come centro della curiosità verso l’altro, come faro culturale di una società aperta?

Sebbene alcune frasi nel testo della studentessa non siano le mie, bisogna darle atto di aver portato alla luce una realtà culturale che altrimenti rimane nel sottobosco delle discussioni fra «noi». Tutto sta ora nella «nostra» (come Uni) abilità di volgere lo sguardo in una direzione efficace.

Filippo Contarini

Wissenschaftlicher Mitarbeiter am Lehrstuhl von Rechtsprofessor Michele Luminati. Dr. Filippo Contarini ist in Rom geboren und später in Lugano aufgewachsen. 2006 begann er in Luzern das Studium der Rechtswissenschaft und erlangte 2012 den Master of Law. Bei Professor Luminati arbeitet er seit 2009.

Collaboratore scientifico presso la cattedra di storia e teoria del diritto del Professor Michele Luminati. Filippo Contarini, Dr. iur., è nato a Roma e cresciuto a Lugano. Nel 2006 ha iniziato a studiare giurisprudenza a Lucerna e nel 2012 ha conseguito il titolo di Master of Law. Collabora con il professor Luminati dal 2009.